“L’albero del riccio”: dal carcere di Turi una storia di luce per chi non può vedere
Editoriale di Maria Pia Iurlaro
Turi, 10 luglio 2025 — A volte, la luce nasce nei luoghi più bui. E a Turi, tra le mura severe del carcere, si è acceso un piccolo faro. Si chiama L’albero del riccio, ed è un libro tattile. Un oggetto semplice all’apparenza, ma denso di significati profondi, nato non solo per essere letto con le mani da chi non può farlo con gli occhi, ma anche per essere compreso con il cuore da chi ancora crede nel potere trasformativo della cultura.
L’opera è stata realizzata interamente dai detenuti della Casa Circondariale di Turi, ed è questo dettaglio a renderla straordinaria. Uomini reclusi, che la società tende a rinchiudere non solo dietro le sbarre ma anche dietro pregiudizi rigidi e insormontabili, hanno lavorato con pazienza e devozione per dare forma tangibile a una delle storie più delicate che Antonio Gramsci raccontava al figlio dal carcere. Una storia che, già in origine, era un gesto d’amore attraverso le sbarre. Oggi, con questa edizione accessibile al tatto, è anche un atto di empatia che attraversa un altro tipo di buio: quello dell’invisibilità sociale e sensoriale.
Il libro non è soltanto un prodotto editoriale. È un’opera viva, costruita con mani che spesso hanno conosciuto il peso dell’errore, ma che oggi si sono fatte strumento di libertà. Un paradosso potente: chi ha perso la propria libertà costruisce un oggetto che restituisce autonomia e bellezza a chi è cieco. Due assenze che, incontrandosi, diventano presenza, solidarietà, vita.
Durante la presentazione al Palazzo Cozzolongo, sede dell’Associazione Cultura&Armonia, non è stata la retorica a commuovere, ma la verità dei gesti. La voce dei detenuti non era quella del pentimento imposto, ma quella più profonda del riscatto silenzioso. La stoffa cucita, le forme modellate, le parole rese materia: ogni dettaglio raccontava non solo la storia di Gramsci, ma quella di uomini che, attraverso questo lavoro, hanno ricamato su se stessi una nuova identità, lontana dagli errori e vicina all’umano.
L’albero del riccio è un messaggio. Non solo per chi lo sfoglierà con i polpastrelli, ma per un’intera società che troppo spesso dimentica il potere dell’educazione, della cura, dell’incontro tra mondi apparentemente lontani. È la dimostrazione concreta che anche in carcere può nascere qualcosa di nobile, che anche chi ha perso tutto può diventare veicolo di senso e bellezza per gli altri.
In tempi in cui si erigono muri più velocemente di quanto si costruiscano ponti, questa iniziativa ci parla di abbattimento di barriere: quelle dell’ignoranza, della diffidenza, della disumanizzazione. E lo fa con la semplicità rivoluzionaria di un libro fatto a mano, che restituisce la possibilità di “vedere” a chi è cieco, e quella di sentirsi utile a chi è dimenticato.
Non serve molto per cambiare il mondo. A volte bastano mani, una storia e un pizzico di speranza. E qualcuno che creda che la cultura possa ancora essere un atto di giustizia.








